La pittura di Carla Pugliano è il trionfo della volontà, il desiderio ossessivo di dare una scolpitura ai pensieri, fissandoli nella pelle madreperlacea delle sue figure, nella sottile inquietudine dei volti, nell’intrico dei corpi dove maschile e femminile si mescolano formando figure arcane, sprigionanti corrosiva passione.
La nudità è un pentagramma su cui l’artista compone la sua melodia, il contrappunto e l’armonia, cercando a volte cromatismi arditi, che graffiano la mente e insegnano che la bellezza è inganno e a volte sofferenza, e impone una profonda e dolorosa immersione dentro sé stessi, un’analisi spietata che conduce ai confini del tempo.
La plasticità dei corpi, l’erotismo a volte algido altre furioso, mostrano l’eterno dualismo tra luce e ombra, acqua e fuoco, amore e morte, ma se l’uomo tende al sublime, il rovello della mente ne frena spesso il volo, consumando energia e mutando la felicità in angoscia e smarrimento. Il mito però lo insegue, spalancando finestre di meraviglia, raccontando silenzi e mostrando l’origine dei sentimenti, gli equilibri e le cadute, il fondo del sacco, dove giacciono le speranze perdute.
Il corpo della donna è una geografia di pensieri, una battuta d’aspetto, l’artista lo rappresenta in una sorta di danza onirica, nudo e trionfante ma a volte sconfitto, dilaniato dai sensi di colpa, avvinghiato al suo presente e al suo passato, teso alla spasmodica ricerca del divino. Spesso lo sguardo è basso, gli occhi sono chiusi oppure mirano lontano, ad altri mondi, a immagini di sogno a lungo ricercate, all’origine del tutto. La bilancia è in bilico, la nostra infinita vanità sembra non ascoltare il sibilo della morte, ma il Tempo è in agguato e ci rivolge la grande domanda del Finale: aperto o chiuso?
Carla, senza auto compiacimenti estetici, gioca con le ombre, le cattura e le sconfigge con il lumeggiare volti, muscoli e nervi, suggerisce che nulla è mai come sembra, e la maschera di felicità che indossiamo spesso nasconde un volto segnato dall’amarezza, l’aquila ci solleva verso l’eternità del perdono, ma il serpente riporta alle tentazioni dell’esistenza, al buio dell’ignoranza e del peccato.
I suoi modelli somigliano a sommi sacerdoti, a Pizie da interrogare a lungo per conoscere ciò che il Fato ci riserva, tanto quei corpi sono ieratici, plasmati nel colore, chiusi nel loro misterioso divenire. La linfa vitale di Dioniso scorre nelle vene dell’artista, trionfa nell’orgiastico Allegro con brio della Settima Sinfonia di Beethoven, ma l’energia primitiva va mitigata dalla ragione, canalizzata nell’atto creativo, nel respiro quotidiano dell’esistenza.
«Son luce e ombra/ angelica farfalla o verme immondo/ sono un caduto chèrubo/ dannato a errar sul mondo/ o un demone che sale/ affaticando l’ale/ verso un lontano ciel». I versi di Arrigo Boito tratteggiano il Doppelgänger che abitava l’animo di Schubert e i versi di Heine -«È il mio sembiante che la luna mi mostra»- e pervade ognuno di noi in misura diversa, mostrandoci in continuazione le infinite sfumature dei sentimenti.
Carla Pugliano lo interpreta con raffinata tecnica pittorica ed esaltante partecipazione emotiva, mettendo la propria femminilità al servizio dell’arte e vivendo essa stessa i turbamenti e le lacerazioni dei personaggi messi in scena, ma anche costruendo, gesto dopo gesto, la speranza del riscatto. Varese, 6 luglio 2022
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